Una nuova strategia molecolare per promuovere la crescita dei muscoli e contrastare i danni dovuti a malattie degenerative come la distrofia e l’atrofia muscolare, ma anche la perdita di tessuto che si ha con l’invecchiamento o a seguito di traumi o tumori: è quella individuata da un gruppo di ricercatori dell’Istituto Telethon Dulbecco, guidato da Marco Sandri del dipartimento di Scienze biomediche dell’Università di Padova e dell’Istituto veneto di medicina molecolare (Vimm)

 

La ricerca – pubblicata su Nature Genetics e condotta in collaborazione con l’Università francese di Versailles Saint-Quentin-en-Yvelines – getta luce su un problema che da diversi anni assilla gli scienziati e le industrie farmaceutiche: come sviluppare farmaci in grado di promuovere la crescita muscolare attraverso l’azione di un ormone chiamato miostatina.

 

“Questa molecola è stata scoperta 16 anni fa facendo uno studio genetico e osservando il caso di alcune mucche che andavano incontro a un’importante ipertrofia muscolare apparentemente spontanea” spiega Marco Sandri. “Studiando il loro Dna si è confermato che presentavano un difetto all’interno del gene codificante per la miostatina, un ormone che si è rivelato essere in grado di bloccare la crescita muscolare”.

 

Lo stesso fenomeno è stato successivamente riscontrato non solo in altri animali, come il cane e la pecora, ma anche nell’uomo. “È facile quindi immaginare come la miostatina abbia immediatamente catalizzato l’interesse non solo degli scienziati, ma anche di diverse aziende, che ne hanno vista un’applicazione terapeutica immediata in svariati campi – continua Marco Sandri –. Addirittura si è ipotizzato che questo ormone potesse essere utilizzato dagli atleti come forma di doping. Ma le cose non sono state così semplici come si immaginava”.

 

Negli ultimi anni sono stati infatti condotti alcuni studi clinici in pazienti distrofici a cui sono stati somministrati diversi inibitori della miostatina, come anticorpi o recettori solubili, in grado di “sequestrare” l’ormone circolante e neutralizzarne così l’azione inibitoria. La speranza era di ottenere una maggior produzione di nuovo tessuto muscolare, come osservato negli animali che presentavano il difetto genetico spontaneo. I risultati, però, sono stati piuttosto deludenti: in tutti i casi il trattamento è risultato tossico e gli studi sono stati interrotti prima del previsto.

 

“Questo perché c’è stata troppa fretta di utilizzare la miostatina in ambito clinico prima di conoscerne dettagliatamente la via metabolica a valle” continua il ricercatore padovano. “In realtà questo ormone appartiene a una vasta famiglia che non controlla soltanto la crescita muscolare, ma anche la formazione di osso, la proliferazione cellulare, il metabolismo, la risposta infiammatoria e la deposizione di tessuto fibroso: da qui gli importanti effetti avversi che si sono osservati negli studi clinici, in cui tra l’altro era necessaria una dose massiccia di farmaco per ottenere l’effetto desiderato”.

 

I ricercatori Telethon si sono quindi chiesti se, studiando meglio a livello molecolare l’azione della mio statina, non si potessero individuare dei bersagli molecolari migliori e più specifici. Grazie a numerosi esperimenti in modelli murini, hanno così individuato un nuovo gruppo di proteine coinvolte nell’azione della miostatina, chiamate Bone Morphogenetic Proteins (BMP), che sono in realtà i veri “registi” in grado di regolare la crescita muscolare (ipertrofia) e prevenire una eccessiva perdita di massa muscolare (cachessia).

 

“Fino a poco tempo fa si pensava che queste proteine controllassero soltanto il metabolismo dell’osso, come suggerisce il nome stesso” spiega Roberta Sartori, prima autrice dello studio e responsabile di gran parte dei test. “Abbiamo invece scoperto che alcune proteine, tra cui BMP14/GDF5, non solo sono espresse nei muscoli, ma sono essenziali per impedire la perdita di muscolo. Queste proteine rappresentano quindi dei bersagli molecolari molto più adatti e interessanti per future terapie ‘salva-muscoli’ da impiegare nel caso di malattie neuromuscolari di origine genetica, ma anche quando il danno ai muscoli è la conseguenza di un evento traumatico o dell’invecchiamento”.

 

“Il lavoro da fare è ancora molto – aggiunge Roberta Sartori –, ma pensiamo di aver dato una importante svolta nel campo della miostatina e di aver imboccato una strada interessante per lo sviluppo di nuovi farmaci”. In conclusione, commenta Sandri, “questo studio ribadisce ancora una volta l’importanza della ricerca di base: senza una conoscenza profonda dei meccanismi molecolari sottostanti a una malattia è difficile trovare la strada giusta. Viceversa, grazie alla ricerca in laboratorio possiamo suggerire ai nostri colleghi clinici dove sia meglio andare a colpire per ottenere l’effetto desiderato”.

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